E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima.
Matteo 10,28
È il pozzo delle anime. Se si presta l’orecchio e si chiudono gli occhi sembra di tornare indietro nel tempo e sentirle ancora. Sono le grida di dolore che salgono dalla gola “rossa” sul pavimento della basilica di Santa Prassede (IV secolo), a due passi da Santa Maria Maggiore.
L’apertura è coperta da un disco di porfido rosso. A monte della storia-leggenda ci sono Prassede e Pudenziana, figlie (e poi sante) del senatore romano Pudente. Si narra che l’uomo politico fosse legato alle due figure importanti della fede cattolica, Pietro e Paolo, più volte e in tempi diversi (si dice per sette anni) indicati dagli storici quali ospiti illustri della casa senatoriale diventata una domus ecclesia, una chiesa domestica.
Il cristianesimo stava cambiando le coscienze di notabili e sudditi dell’Impero. Ma il processo era ancora incompleto e tortuoso. I fedeli di Cristo continuavano a essere perseguitati e chi era ai vertici del potere era ancora convinto che il monoteismo della croce potesse mettere a rischio anima e corpo del regno. Perciò i cristiani continuavano a essere malvisti.
Ma non da Prassede e Pudenziana. Per le due sorelle, le vittime della cosiddetta giustizia capitolina erano martiri, il loro sangue era prezioso e quindi andava conservato. Ecco perché si parla del pozzo delle anime. Si racconta che le ragazze abbiano portato in casa (oggi basilica) i corpi di circa duemila cristiani ammazzati, abbiano dato loro degna sepoltura e, prima di tumularli, con una spugna abbiano raccolto il loro sangue conservandolo nella cavità che si apre sull’impiantito.
La chiesa di Santa Prassede è nota anche per un’altra testimonianza di sofferenza. Si tratta di una colonna di marmo conservata in una piccola cappella accanto al sacello di san Zenone. Secondo tradizione, su quel ceppo i soldati di Ponzio Pilato avrebbero legato e martoriato il Nazareno. Il fusto di marmo è alto poco più di 60 centimetri, largo 40 alla base e 20 sulla sommità. In origine, i testi riportano che nel 1233 il pezzo fu portato da Gerusalemme nella chiesa romana dal cardinale e condottiero crociato Giovanni Colonna. Poi, nel 1699, il blocco marmoreo fu definitivamente spostato (dove adesso si trova) da monsignor Ciriaco Lancetta, uditore della Rota.