Nella seconda Tenda solamente il Sommo sacerdote entrava una volta all’anno.
Lettera agli Ebrei 9,7
Credo quindi sono. Sembra miri a questo la bellezza che risplende in Vaticano: portare il pellegrino a “sentire” la propria fede senza soffocarla coi lacci della ragione. Un po’ come fece Pietro quando guardò Cristo negli occhi e gli disse quasi sorprendendosi: “Tu sei il Figlio del Dio vivente” (Matteo 16,18). Con quelle parole Pietro riconobbe il Salvatore e scoprì di essere diventato persona diversa rispetto al semplice pescatore che era. Aveva raggiunto l’illuminazione. Oggi Gesù non è più in carne e ossa tra la gente per sorprendere ancora. Però la bellezza può essere un favoloso tappeto volante sul quale trasportare l’anima.
In basilica, la Confessione (e la tomba di Pietro) è uno dei passaggi da seguire per sfiorare il sublime. Percorrendo la navata centrale l’opera si trova nella cavità che si apre sotto al Baldacchino. In alto c’è la cupola michelangiolesca con le parole di Gesù all’apostolo della basilica vaticana: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa, tue sono le chiavi del Regno dei Cieli”. Tutto fantasticamente perfetto. Ogni elemento del quadro artistico è allineato come le stelle: in basso la Confessione, al centro l’altare e sopra la dichiarazione “celeste”. Dal Cielo alla terra.
Il senso profondo della Confessione viene da lontano, dalla tradizione ebraica. I nostri “fratelli maggiori” la festeggiano con lo Yom kippur (Festa dell’Espiazione). Nel Tempio il Sommo sacerdote pronunciava il nome di Dio riversando simbolicamente i peccati della comunità su un capro (detto espiatorio) mandato a morire nel deserto. Un altro, invece, veniva sgozzato e sacrificato al Signore. Come spiega il catechismo, nel cristianesimo il capro espiatorio è Cristo incarnato: si è fatto crocifiggere per tutti cancellando la colpa del peccato originale.
Inoltre, c’è un evento per il quale la Chiesa raccomanda di prestare particolare attenzione. Prima c’è una premessa che fa il cristianesimo. La trasgressione biblica che causò la cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden ha lasciato nell’animo umano una ferita che non si è più rimarginata: la tendenza al male. È quasi un marchio, uno stigma, un segno di riconoscimento che spiega le vulnerabilità di ciascuno. Perciò la religione mette in guardia: la continua manifestazione di azioni e pensieri negativi rischia di vanificare il sacrificio di Cristo. Sarebbe come un vaccino che smettesse di proteggere perché non si fanno più dosi di richiamo. Allora qual è il rimedio? È un rito. La Chiesa lo ripete ogni anno e serve a non disperdere le energie salvifiche di Cristo. Consiste nel (ri)professare la propria fede la notte di Pasqua, alla Festa della Luce. In quell’occasione il sacerdote ricorda la Resurrezione di Gesù, battezza i nuovi cristiani e domanda a chi lo è già di ribadire l’impegno assunto (dai suoi genitori) col Battesimo. Riaffermare il proprio credo serve a tenere viva la fiamma della fede. E non è un caso se il tempo scelto per celebrare la liturgia sia una veglia notturna. Un’altra metafora: sugli uomini, senza Cristo calerebbe il buio.